Accade molto spesso che conoscenti mi consiglino dei libri da leggere; alcuni di loro sono amiche e amici che mi conoscono abbastanza bene da indirizzare il suggerimento verso testi di mio gradimento. Si contano sulle dita di una mano le volte in cui a tali dritte io possa associare una vera e propria rivelazione; è questo il caso di Tu che eri ogni ragazza di Emanuela Cocco (Wojtek, 2018); un romanzo che mi ha cambiata e mi ha incoraggiata a rivedere le mie sicurezze in termini di tecnica di scrittura. Oggi ho il piacere di poterne parlare direttamente con l’autrice, Emanuela Cocco.
-Emanuela, da dove nasce l’idea del romanzo?
Prime delle immagini e dei riferimenti letterari che gli hanno dato vita, il romanzo è nato dalla stanchezza e in parte anche dall’avversione che provavo verso una strutturazione classica della storia, quella che Robert McKee definisce “architrama”, una storia con un protagonista forte, un arco ben stabilito in cui il personaggio ha un obbiettivo chiaro, affronta degli ostacoli e alla fine cambia e risolve il suo problema. L’idea che il dolore porti a un miglioramento nella vita di un uomo, a una maggiore consapevolezza, l’idea che la vita sia un percorso in cui alla fine tutti abbiamo la possibilità di colmare le nostre mancanze e di capire i nostri errori la trovo ormai una mistificazione insopportabile. Quindi, prima di tutto, sapevo di non voler scrivere una storia di redenzione, una storia in cui un uomo ne salva un altro e così salva se stesso. Non credo più in quel tipo di storie.
-L’ambientazione è un elemento che hai particolarmente curato, cosa ti “ispira” di Roma?
Roma, molto semplicemente, è il posto in cui vivo e che conosco meglio. Poi è una città grande e dispersiva, in cui c’è molta ricchezza e anche molta disperazione, è così diversa che anche facendo pochi passi in una zona puoi trovare entrambe le cose. Mi sembra una città in cui è possibile divertirsi ma anche essere dimenticato, sentirti molto solo ed estraneo a tutto. Poi è una città rumorosa, ingestibile, in cui ti puoi sentire perso, esposto a qualsiasi cosa.
-I personaggi del tuo romanzo hanno uno spessore impressionante: chi di loro è stato più compreso da lettrici e lettori?
Il personaggio del padre è di sicuro quello che è arrivato di più, un po’ per il registro che ho scelto, un flusso di coscienza, una confessione che arriva in modo diretto. Il suo personaggio è quello che è arrivato per primo, l’ho scritto senza troppa meditazione, partendo dalla traccia minima che c’è nella storia: un uomo che ha perso qualcosa a cui teneva più della sua stessa vita e che cerca qualcosa che sostituisca quello che dava senso a tutto.
-In un episodio del romanzo, una delle protagoniste viene ripresa con il cellulare durante un rapporto sessuale. Che riflessioni ti suscita questa pratica, ormai consuetudine per i millennial?
Mi viene in mente una raccolta di saggi molto interessanti, “L’immagine carnefice” (Cronopio), in cui si riflette sullo statuto dell’immagine come creatrice di violenza più che come mezzo per testimoniarla. Questa mi sembra una prospettiva importante da cui guardare la cosa. Nel caso specifico è come se si facesse sesso per poterlo riprendere e non il contrario. È come se la prospettiva di poter riprendere l’atto sessuale fosse più interessante e desiderata dell’atto stesso. In questo caso l’immagine ha una connotazione violenta, penso a quello che è accaduto a Viterbo, dove una donna è stata stuprata e filmata dal consigliere comunale di Vallerano e dal militante viterbese di CasaPound. Lì la violenza è diventata a tutti gli effetti una performance sadica, un atto che è nato come spettacolo della violenza e della sopraffazione. Quindi in questo caso il video sembra quasi essere l’obiettivo finale e non qualcosa di accessorio, che viene dopo il gesto.
-Che valore ha la pietà?
Questa è una domanda a cui non posso rispondere senza mettere in fila una serie di banalità. La pietà in effetti è un mistero. Sapere da dove nasce, cosa la mette in moto, cosa la rende centrale nella vita di qualcuno e cosa la renda una dimensione inaccessibile a un altro essere umano è la domanda che mi tormenta, è il motivo per cui mi metto a scrivere.
-Con riferimento al tema del “fare” un romanzo, ritieni che l’assenza del conflitto possa essere essa stessa il conflitto?
No, non lo penso. Il conflitto è parte della nostra vita e penso sia impossibile per me scrivere qualcosa in cui non ci sia conflitto. La cosa a cui tengo è il modo in cui si decide di raccontarlo. Perché non credo neanche nella sua risoluzione, o nella nostra capacità di scioglierlo e comprendere a pieno le sue ragioni, la sua natura, così quello che ci rimane è provare a raccontarlo in modo autentico, senza scorciatoie, senza appoggiarci a modelli consolatori di configurazione della storia. L’assenza di conflitto per me è solo una nostra incapacità di metterlo a fuoco e di renderlo visibile, ma è questo il lavoro che mi interessa fare, o almeno ci provo.
-Nel progetto Le parole sono importanti, edito da DOTS, hai scelto la parola “Mappa” come rappresentativa del 2018, come mai questa scelta?
Cercavo una parola che rendesse l’idea di quello che stiamo vivendo ora. Ho pensato che veniamo guidati di continuo verso letture parziali, errate e pericolose della storia, racconti in malafede che costruiscono un mondo fittizio in cui noi non abbiamo nessun ruolo se non quello di pedine che vengono sistemate su un percorso prestabilito. Così ho immaginato la personificazione di una mappa concettuale che alla fine porta all’odio, odio razziale, di classe, odio verso l’altro da noi. Questa mappa, perciò, parla alla sua prossima vittima e lo schernisce, gli dice: hai deciso di seguirmi, non porto a nessun tesoro, te ne accorgerai, hai deciso di seguirmi invece che andare per conto tuo, e io te la farò pagare.
–In Una stanza tutta per sé (1929), Virginia Woolf affermava l’impossibilità di concepire una scrittrice, una musicista, una pittrice… che debba occuparsi anche delle “incombenze della casa”, in quanto l’arte è sinonimo sempre di concetti eterni e infiniti difficilmente conciliabili con il tempo della giornata. Tu hai prodotto un romanzo complesso e stilisticamente ricercato, come hai fatto a far convivere un lavoro così sofisticato con gli “adempimenti” del quotidiano?
Io la penso all’opposto. Penso che vale la pena, e anzi è un dovere, stare nel mondo, conoscerlo, farci a pugni, vivere la difficoltà e cercare di strappare il tempo che ti occorre per scrivere. Non mi ci vedo a stare sempre solo chiusa in una stanza, cosa avrei da dire alla fine? Le idee migliori mi sono venute a bordo dell’autobus Cotral che ho preso per anni, quando facevo la pendolare e viaggiavo ogni giorno per andare a lavorare fuori Roma. Le complicazioni, le volte in cui siamo costretti a scegliere e a sacrificare qualcosa, rendono la scrittura concreta. Mi trovo più con Flannery O’Connor, che dice che la scrittura è un’arte incarnatoria. Niente è davvero eterno o infinito, se non la nostra difficoltà nel vivere la vita di ogni giorno, in questo senso le varie beghe quotidiane sono una benedizione, se vuoi scrivere qualcosa che non suoni falso. Non so se il mio romanzo è stilisticamente ricercato ma so che non sarebbe accaduto nulla se non fossi stata presente nel mondo, anche incazzata o stanca ma presente, costretta ad esserlo.